La recente escalation del conflitto tra Gaza e Israele ha gettato nuovamente l’attenzione del mondo sulla tumultuosa regione del Medio Oriente. Iniziata all’alba del 7 ottobre 2023, la crisi in corso rappresenta un grave pericolo non solo per la stabilità locale, ma anche per l’equilibrio internazionale.
La complessità della situazione, le sue origini e le implicazioni future su larga scala hanno dei forti parallelismi con la Guerra dello Yom Kippur del 1973.
L’escalation in corso tra Gaza e Israele sembra essere una conseguenza inevitabile delle lunghe tensioni regionali. Tuttavia, la sua origine risiede profondamente nel conflitto palestino-israeliano.
In passato, crisi simili erano scatenate da eventi specifici: gli scontri nella spianata delle moschee a Gerusalemme venivano seguiti da lanci di razzi da Gaza, quasi sempre respinti dal sistema di protezione Iron Dome. Gli israeliani rispondevano con i raid nell’enclave di Gaza, mentre l’Egitto mediava con precari cessate il fuoco.
L’escalation attuale è diversa. Questa volta, i gruppi armati che controllano Gaza dal 2006 hanno intrapreso una vera e propria incursione di terra in territorio israeliano. È la prima volta che ciò accade, e lo hanno fatto attraverso tunnel sotterranei e prendendo il controllo del valico di Beit Hanoun/Erez, una delle principali vie di accesso a Gaza. Le immagini dei miliziani palestinesi che si spostano liberamente per le strade di Israele rappresentano una fragilità senza precedenti per il Paese.
Il 2023 ha segnato il cinquantesimo anniversario della Guerra dello Yom Kippur. Come allora, l’intenzione è quella di rompere lo status quo o, quantomeno, dimostrarne la vulnerabilità. Nel 1973, l’attacco a sorpresa condotto da Egitto e Siria durante il giorno dello Yom Kippur ha rappresentato un grave shock per Israele, che pure è uno Stato altamente militarizzato.
Nel 1973, le nazioni arabe coinvolte nella guerra miravano a riconquistare i territori persi durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. L’escalation attuale potrebbe essere guidata da scopi simili, con l’obiettivo palestinese di porre fine all’occupazione israeliana e stabilire uno stato indipendente. La scelta del nome dell’operazione, “Tempesta di Al-Aqsa,” che fa riferimento a Gerusalemme e alle sue moschee, riflette sia una questione locale che regionale.
Sono diversi gli attori che potrebbero trarre vantaggio dall’attuale situazione, sia dal punto di vista geopolitico che macroeconomico.
L’Iran, noto per il sostegno ai gruppi palestinesi, potrebbe rafforzare tra di essi la propria influenza. Questo avrebbe implicazioni significative per gli equilibri di potere in Medio Oriente.
Anche il gruppo Hezbollah, legato all’Iran e con base in Libano, ha già rivendicato il lancio di razzi contro Israele e ha l’opportunità di sostenere i palestinesi minando gli sforzi di pace.
Per quanto riguarda le implicazioni macroeconomiche, il Medio Oriente è una regione chiave per l’approvvigionamento energetico globale. La stabilità dei mercati energetici è a rischio, con possibili aumenti dei prezzi del petrolio. Come nella crisi petrolifera del ’73, ciò avrebbe conseguenze dirette sui Paesi che dipendono fortemente da queste importazioni, in particolare l’Europa (ad esclusione del Regno Unito con il prezzo del Brent che non potrà che incrementare)*.
A livello globale il coinvolgimento degli Stati Uniti nella ricerca di una soluzione pacifica tra Israele e Gaza rafforza la loro posizione nello scenario internazionale e in quello geopolitico del Medio Oriente. Questo verrebbe utilizzato per influenzare la stabilità e gli equilibri di potere nella regione: un parallelo con le guerre arabo-israeliane precedenti in cui gli Stati Uniti spesso hanno agito come mediatori.
Gli USA possono inoltre sfruttare il conflitto per proteggere le rotte energetiche chiave e per consolidare legami con i loro alleati regionali, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
L’instabilità in Medio Oriente avrà senz’altro conseguenze dirette sugli investimenti cinesi (BRI in primis) ma anche sull’Europa: oltre ai flussi migratori e alla minaccia legata alle forniture energetiche, aumenterà il rischio di radicalizzazione tra le comunità musulmane e con essa i problemi di sicurezza.
La regione e il mondo devono affrontare una delle crisi più complesse della storia contemporanea, cercando soluzioni che portino a una stabilità duratura. Il dialogo e il compromesso rimangono essenziali per evitare ulteriori perdite umane e instabilità locale, mentre la comunità internazionale deve monitorare attentamente le implicazioni geopolitiche e macroeconomiche di questa escalation in rapido sviluppo.
*Approfondimento
Illustri storici come Ernesto Galli della Loggia hanno ipotizzato che la crisi petrolifera del 1973 sia stata concretizzata dagli Stati Uniti per rallentare la crescita economica dell’Europa, la quale stava diventando una minaccia.
Infatti, agli inizi degli anni Settanta volgevano al termine gli Accordi di Bretton Woods. Due importanti eventi, la guerra del Vietnam e il programma di welfare chiamato Grande Società, fecero aumentare di molto la spesa pubblica statunitense e misero in crisi il sistema: di fronte all’emissione di dollari e al crescente indebitamento degli USA, il Dollaro veniva sempre di più messo in discussione come moneta ufficiale di scambio e aumentavano le richieste di conversione delle riserve in oro.
Ciò spinse il Presidente Nixon, il 15 agosto 1971 a Camp David, ad annunciare la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Le riserve statunitensi si stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro degli USA aveva già erogato oltre 12.000 tonnellate di oro. Nella gestione del Fondo Monetario Internazionale erano già operativi i Diritti Speciali di Prelievo con un valore puramente convenzionale di un diritto speciale di prelievo per un dollaro.
Di conseguenza, nel dicembre del 1971, il gruppo dei Dieci firmò lo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, svalutando il dollaro e dando inizio alla fluttuazione dei cambi. Nel febbraio del 1973 ogni legame tra dollaro e monete estere venne definitivamente reciso e lo standard aureo fu quindi sostituito dal sistema di cambi flessibili.
Gli accordi di Bretton Woods avevano dato una spinta allo sviluppo commerciale ed economico dell’Europa, che nei trent’anni precedenti era cresciuta vertiginosamente e che, attraverso la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), era arrivata alla costituzione della Comunità Economica Europea (CEE) con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957.
Nella stessa data, con altro trattato, fu costituita la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom). I Trattati di Roma entrarono in vigore il 1° gennaio 1958. La CEE e la CEEA venivano così ad aggiungersi alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), creata con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, e formavano le cosiddette Comunità Europee.
Il nuovo costituente soggetto economico/politico (che poi divenne la CEE e anche CE) stava diventando un pericoloso antagonista globale degli USA e ciò non era conveniente per gli stessi Stati Uniti.
In questo contesto era interesse degli USA mettere in difficoltà questo nuovo soggetto e cosa c’era di meglio che far lievitare il prezzo del petrolio da cui l’Europa era (ed è…) fortemente dipendente per la sua produzione industriale?
Come sostiene Ray Dalio nel suo famoso testo “Il nuovo ordine mondiale” la storia insegna a leggere le vicende attuali e a prevedere cosa succederà in futuro. A partire da tale ipotesi, è mia opinione che l’attuale guerra a Gaza, insieme agli attacchi degli Houthi alle navi commerciali nel Mar Rosso, e la conseguente strozzatura di una delle principali rotte commerciali del petrolio e dell’interscambio tra Europa e Cina/India, siano l’ennesimo tentativo degli Usa di mantenere, con le unghie e con i denti, o il predominio economico globale che vedono messo in discussione su più fronti.
2023, Valerio Giunta